A Firenze c’era chi aveva un b&b a pochi passi dal Duomo. Chi una ditta edile. E chi faceva soltanto l’imbianchino. Piccoli pezzi del grande puzzle che è la maxi inchiesta condotta dalla guardia di finanza di Pisa, e coordinata dalla procura antimafia di Firenze, sul traffico internazionale di cocaina acquistata in Ecuador e introdotta in Italia su nave, in casse di banane o altra frutta esotica.
Secondo quanto ricostruito, al porto di Livorno, nodo cruciale del narcotraffico, intervenivano le “squadre” di recupero, soprattutto albanesi ma anche rumeni e italiani. Italiani che sarebbero i referenti della ‘ndrina Molè, cosca calabrese della piana di Gioia Tauro specializzata nel traffico di droga. Da lì partiva la grande distribuzione, e solo i carichi sequestrati durante l’attività d’indagine avrebbero fruttato all’organizzazione circa 70 milioni di euro. Per questo ’business’ si erano alleati esponenti di ‘ndrangheta, camorra e una banda albanese che aveva ramificazioni in Belgio, Albania, Francia e Germania, oltre alla Colombia e all’Ecuador. E che, si legge dagli atti, avrebbero avuto interessi anche a Firenze. Albert Turja, albanese di 44 anni, colui che secondo i pm titolari dell’inchiesta, Luca Tescaroli e Leopoldo De Gregorio, avrebbe gestito le squadre di intervento al porto di Livorno, è proprietario insieme alla moglie di un bed and breakfast in via Martelli, zona Duomo. Ma non finisce qui.
Secondo fonti investigative, ci potrebbero essere altre strutture ricettive o ristoranti riconducibili agli indagati albanesi, che potrebbero svelare un vasto canale di riciclaggio. Un altro ’presidio’ in città, si legge, sarebbe stata la ditta di uno dei cugini degli indagati, sempre di origine albanese. Il suo nome spunta fuori durante la ricostruzione di un episodio di recupero di un carico di 400 chilogrammi di cocaina. Lui avrebbe dato in consegna la sua macchina di costo e cilindrata maggiore di quella del cugino, ’pilastro’ della squadra di recupero, per portare al termine la missione.
Più incisivo invece il ruolo di un altro indagato, Everest Luku, che secondo l’accusa avrebbe avuto importanti “aderenze all’interno di organi di polizia”, che gli avevano permesso di conoscere l’imminente esecuzione di un provvedimento restrittivo nei confronti di altri albanesi. Era il 2020, e l’operazione che Luku ’spifferò’ era quella denominata Los Blancos. Una maxi indagine della squadra mobile di via Zara che ha messo in luce l’organizzazione che faceva capo al trafficante albanese Dritan Rexhepi, in affari con i clan ecuadoriani e colombiani. In quel frangente, Luku “aveva già provveduto ad avvisare sia i suoi ragazzi che quelli del suo affarista”.
Questa volta, però, per Luku e gli altri non c’è stato scampo. Le indagini hanno prodotto 30 misure cautelari: 23 in carcere, 6 ai domiciliari, un obbligo di firma.
P.m.
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