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tra le opzioni il congelamento della situazione attuale al fronte #finsubito prestito immediato


Sono al lavoro i consiglieri di Donald Trump per consentirgli di mantenere la prima e forse più difficile promessa elettorale, quella di metter fine alla guerra in Ucraina entro l’Inauguration Day, il prossimo 25 gennaio. Come ci riuscirà, resta un gigantesco punto interrogativo. A chi glielo chiedeva, Trump ha risposto di non poter rivelare «i miei piani, perché se ve li dico non sarò più in grado di usarli».

Eppure, qualcosa è trapelato nelle ultime settimane. Il dato fondamentale, che lo stesso Zelensky ha sottolineato a commento dell’elezione di Trump, è che «nessuno può prevedere che cosa farà» il presidente eletto. Secondo Anders Fogh Rasmussen, il segretario generale della Nato dal 2009 al 2014, anno d’annessione della Crimea, è proprio la «imprevedibilità» del Tycoon una chiave potenziale della pace, unitamente al suo desiderio di apparire vincente, il leader che attraverso una «formula forte» riuscirà ad avviare il processo di pace Kiev-Mosca. L’unico in grado di convincere Putin a “fermare la guerra”. Al Cremlino si mostrano prudenti. L’ex presidente russo Medvedev ribadisce a ogni buon conto che gli obiettivi della “operazione speciale” in Ucraina resteranno immutati.

E a Kiev, nello staff di Zelensky, all’iniziale frustrazione per la vittoria di Trump, critico verso l’invio in Ucraina di miliardi di dollari in armi a fondo perduto e verso lo stesso presidente ucraino definito «il più grande venditore» del mondo, è subentrata la speranza forse irrazionale che due leader dalla provenienza esterna alla politica, l’attore Zelensky e l’imprenditore showman Trump, possano intendersi bene e stabilire un proficuo rapporto personale. Inoltre, negli ultimi tempi a Kiev erano delusi dalla prudenza eccessiva con cui l’amministrazione Biden sdoganava i sistemi d’arma e il loro uso in territorio russo, e soprattutto dalla lentezza delle consegne. Trump è visto come più fattivo e spregiudicato.

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LA POSIZIONE SU PUTIN

Quanto agli scenari, si scontrano diverse visioni tra i “suggeritori” del tycoon. Mike Pompeo, già segretario di Stato e in lizza per il Pentagono, ha un approccio tradizionale e ritiene che non si debba darla vinta a Putin. Al momento, quindi, non dovrebbero interrompersi gli aiuti militari, semmai bisognerebbe imbastire un’azione diplomatica di Trump per portare allo stesso tavolo lo Zar e Zelensky. Al contrario, secondo uno dei candidati alla Segreteria di Stato, Richard Grenell, la guerra dev’essere fermata al più presto, costringendo Kiev a fare concessioni in termini di territorio accogliendo l’idea di un congelamento della linea del fronte (la Russia occupa circa un quinto dell’Ucraina).

IL PATTO ATLANTICO

Il terzo scenario, riportato dal Wall Street Journal citando tre consiglieri anonimi di Trump, aggiunge alla cessazione delle ostilità in base allo status quo anche un impegno di Kiev a non aderire alla Nato per almeno vent’anni. In cambio, però, gli Stati Uniti continuerebbero ad armare l’Ucraina come deterrenza verso la tentazione di Putin di affondare il coltello e invaderla nuovamente. Si dovrebbe poi definire una zona cuscinetto demilitarizzata lunga circa 1200 chilometri, presidiata non da americani (Trump ha detto che non ha alcuna intenzione di mandare altri soldati Usa a combattere le guerre degli altri, per di più a caro prezzo). Semmai dagli europei, perché è venuta l’ora che l’Europa si assuma le proprie responsabilità. Un quarto possibile “piano”, tratteggiato da Keith Kellogg e Fred Fleitz, collaboratori di Trump durante il primo mandato alla Casa Bianca, ipotizza che venga sospeso l’invio di armi a Kiev finché Zelensky non si persuaderà ad avviare un negoziato serio. Ma questa opzione è considerata da molti poco commestibile per un macho come Trump, perché renderebbe la posizione negoziale ucraina troppo debole al cospetto della Russia (che continua ad avanzare sul campo di battaglia, a martellare con droni la capitale Kiev e ieri anche a bombardare Zaporizhzhia, la città della centrale nucleare).

IL FRONTE DI KURSK

La potente massa d’urto dell’esercito di Putin e la contemporanea carenza di nuove risorse umane tra gli ucraini, oltre all’apporto recente di ben 10mila soldati nordcoreani spediti al fronte di Kursk per ingrossare le fila di Mosca, pesano sulle decisioni che dovranno prendere Trump e Zelensky. Senza contare che Putin potrebbe non avere interesse in questo momento, con le sue truppe all’attacco nel Donbass, ad accettare colloqui di pace sotto l’ombrello Usa.

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