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Università italiana oppressa da burocrazia e sottofinanziata: l’impietoso confronto coi maggiori Paesi Ue #finsubito prestito immediato


Il professor Alessandro Barbero, storico illustre e più di recente divulgatore di grande popolarità e successo lascia l’Università e lo fa con un pesante J’accuse, in un’intervista a La Stampa.

Il J’accuse di Alessandro Barbero

“La burocratizzazione del nostro mestiere, il tempo passato a svolgere attività che un amministrativo farebbe molto meglio, la pretesa di trasformare studiosi e ricercatori in capi ufficio ha reso stressante un lavoro bellissimo». Condividiamo le preoccupazioni di Barbero, anche se non la sua volontà di dimettersi, e riteniamo che il sistema universitario italiano non soffra solo di una “burocrazia” a volte, come vedremo, opprimente, ma anche di sottofinanziamento e precarietà.

L’Università italiana presenta notevoli punte eccellenza, ma le condizioni in cui i docenti e i ricercatori (circa 60.000) operano sono difficili rispetto a quelle di molti dei loro colleghi europei. Possiamo individuare tre grandi nodi che rendono il “mestiere” dell’Università “difficile” da svolgere nel nostro paese:

  • i bassi investimenti in educazione e ricerca che caratterizzano non solo l’attuale governo ma anche tutti quelli che lo hanno preceduto negli ultimi 12 anni.
  • La tendenza ad una progressiva precarizzazione del corpo docente.
  • La crescente burocratizzazione della professionalità docente, su cui punta il dito Barbero.

Proviamo ad analizzare queste tre problematiche tenendo in conto il panorama universitario europeo.

Finanziamenti a scuola e università: il confronto con gli altri paesi Ue

La ricerca e la scuola in Italia sono sottofinanziate. Secondo il rapporto Openpolis del 2023 sulla “povertà educativa” la spesa complessiva per l’istruzione in Italia è stata del 4,1 % (circa 80 miliardi) del PIL. Una percentuale non solo inferiore alla media europea, ma anche nel confronto con gli altri gradi stati europei. Per avere un termine di paragone, nel 2021, la Germania ha destinato all’educazione e alla ricerca il 4,5% del prodotto interno lordo, la Francia più del 5.5%, il Regno Unito il 6,3 %. Non si tratta di una tendenza nuova. Dal 2010 tra i grandi paesi dell’Unione Europea l’Italia è quella con la spesa inferiore in rapporto al Pil e la sua spesa è inferiore, anche, alla media dell’intera Unione europea (4,8%).

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Fig. 1: La spesa in educazione e ricerca rispetto al Pil in Italia e in Europa

Se poi passiamo alla sola università, secondo il rapporto ANVUR del 2023 e nel confronto con Germania, Regno Unito, Spagna e Francia, il livello della spesa complessiva è davvero ancora troppo basso (0,90% del PIL in Italia rispetto al dato della media OCSE dell’1,45%), e analoga considerazione può essere fatta per la spesa in ricerca e sviluppo (1,47% rispetto al dato OCSE del 2,54%). Siano secondo il rapporto ANVUR 2023 al 30% in meno rispetto alla media UE.

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Italia fanalino di coda per numero di laureati

Tra i dati più preoccupanti, poi, permane la percentuale di laureati nella fascia d’età 25-34 anni, che nel 2021 ha raggiunto il 28,3%, a fronte di un dato OCSE del 47,1%; il grande paese più vicino è la Germania con il 35,9%, ma Eurostat segnala come L’Italia resta il fanalino di coda tra i Paesi Ue per la quota di laureati registrata.

La quota italiana è simile a quella di Ungheria, Repubblica Ceca e Romania. In testa alla classifica europea stilata in base alle quote dei laureati registrate nei singoli Paesi c’è Lussemburgo (61%), seguito da Irlanda e Cipro (entrambi 58%), Lituania (56%) e Paesi Bassi (52%). Questi Paesi, insieme a Belgio, Danimarca, Spagna, Francia, Slovenia e Svezia, formano il gruppo di Stati che ha raggiunto in anticipo l’obiettivo del 45% di laureati.

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Fig. 2: Il numero di laureati in Europa secondo Eurostat

Pochi docenti e sempre più ricercatori precari

Come dicevamo l’università italiana è sottofinanziata ma sono pochi anche docenti e ricercatori. Ad esempio, nel corso dell’ultimo decennio il numero di ricercatori nell’Unione europea, sempre secondo i dati di Open Polis elaborati su fonte Eurostat, ha visto un sostanziale aumento: +24% tra 2012 e 2021. Stando all’ultimo aggiornamento disponibile, i ricercatori universitari in Europa sono più di 638.232 nel 2021. A ospitarne il numero più elevato in termini assoluti è la Germania (120mila, circa il 19% del totale). Seguono Francia (14%) e Spagna (11%). È la Danimarca a detenere il primato europeo, con oltre 300 ricercatori universitari ogni centomila abitanti. Segue il Portogallo con 280. Agli ultimi posti si posizionano invece Romania (32) e Bulgaria (48).

L’Italia, con 99 ricercatori ogni centomila abitanti, è al quartultimo posto in Europa e ben al di sotto della media, pari a circa 143.

A tal proposito ANVUR segnala, infatti, per l’Italia un andamento oscillante ma relativamente stabile del numero dei ricercatori: e docenti in decrescita tra 2012 e 2021 e in ripresa per un solo anno fino al 2022 – forse grazie ai fondi PNRR – con 4000 unità in più rispetto al 2012.

I dati, tuttavia, evidenziano come questa crescita sia dovuta soprattutto all’incremento dei giovani ricercatori a tempo determinato. Approfondendo l’analisi dei dati, in Italia nell’anno 2012 il personale docente contava su circa 26.638 ricercatori (46,5% dei docenti), nel gradino superiore 16.146 professori associati (28,2%) e al vertice 14.521 professori ordinari (25,3%). Nell’anno 2022 la composizione dell’organico dei docenti universitari è differente: i ricercatori diminuiscono (con la messa ad esaurimento del ruolo a tempo indeterminato) e sono 18.813 (30,8 %) di cui due terzi a tempo determinato, sono 26.599 i professori di II fascia (43,5% del totale), e 15.687 professori di I fascia (25,7% del totale). In sostanza nei prossimi anni i ruoli a tempo determinato tenderanno a raggiungere la percentuale del 30% del personale docente, cioè tutti i ricercatori.

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Fig. 3 Il numero di docenti nelle Università italiane

La burocrazia, anche digitale, che ostacola la ricerca

Giungiamo ora al tema che ha fornito lo spunto per questa analisi del sistema universitario italiano, ovvero il crescente peso dei “compiti organizzativi e di gestione” sul lavoro docenti. In molte università italiane l’esperienza in questo ambito è considerata, ad esempio, un requisito necessario e, purtroppo, talvolta “sufficiente” per la progressione di carriera. Per l’avanzamento a ruoli accademici superiori, in cui l’esperienza di ricerca e didattica dovrebbe essere preminente, viene spesso richiesta, invece, una significativa esperienza gestionale’ e/o organizzativa.

Questo potrebbe essere un criterio “condivisibile” se tale esperienza fosse acquisita nella gestione di progetti di ricerca o team di lavoro impegnati in attività di ricerca nazionali o internazionali competitive (progetti europei, o grant nazionali o internazionali). Allo stesso modo questo criterio, potrebbe essere valido se fosse legato all’organizzazione di progetti cooperazione tra università e istituzioni territoriali, nazionali o internazionali oppure al trasferimento tecnologico o alla disseminazione della ricerca nella società o nell’impresa.

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Il fatto è che nella maggior parte dei casi, la mole di lavoro gestionale e organizzativo riguarda, invece, compiti propriamente amministrativo/burocratici tutti “interni” ai singoli Atenei, Dipartimenti o Corsi di Laurea. Questo, crediamo, intenda Barbero quando parla di: “trasformare studiosi e ricercatori in capi ufficio”.

Alcune esempi di compiti organizzativi che sono richiesti ai docenti

La maggior parte dei compiti organizzativi che sono richiesti ai docenti riguardano, infatti, temi che sono solo molto “latamente” sono legati alla ricerca e alla didattica. Vediamo alcuni esempi: l’adeguamento dei piani didattici e dell’offerta formative alle modifiche della normativa che muta in continuazione; il calcolo dei crediti (CFU) da attribuire agli insegnamenti e alle varie attività didattiche che compongono i Corsi di Laurea; la definizione, anche amministrativa, dei piani di studio di Lauree e Master. Ed ancora, la predisposizione di materiali per l’orientamento in ingresso ed in uscita, oltre naturalmente alla gestione dei bandi di concorso per i docenti e i passaggi di carriera, ma soprattutto dei bandi per l’assegnazione di incarichi di collaborazione per laboratori e tutoraggi.

Si tratta di incarichi che spesso prevedono una remunerazione di poche centinaia di euro e richiedono, tuttavia, una commissioni di tre docenti o ricercatori, un bando nazionale e commissioni che si debbono riunire almeno due volte, per valutare a volte molti candidati e predisporre i relativi verbali. Nelle attività amministrativo/burocratche rientrano, inoltre, anche le “onerose” e spesso “bizantine” pratiche relative alla valutazione e autovalutazione delle attività svolte richieste ai Corsi di Laurea e ai Dipartimenti per l’accreditamento periodico dei Corsi di Studio dall’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR).

Si tratta di compiti ovviamente necessari -ne abbiamo elencati solo alcuni – ma estremamente dispendiosi in termini di tempo e che spesso potrebbero essere svolti o coadiuvati da personale tecnico ed amministrativo, liberando così più spazio per la ricerca empirica o teorica, e la didattica. Troppa burocrazia, come giustamente afferma Barbero: “soffoca la scuola e la ricerca”.

Non si tratta del rifiuto di “sporcarsi le mani” con compiti organizzativi, ma della fatica di dedicarsi a compiti gestionali che spesso prevedono, tra l’altro, l’utilizzo di software e programmi obsoleti nella concezione e poco funzionali rispetto allo scopo, come ad esempio quelli che in molte università italiane sono presenti per la gestione dell’offerta formativa, per la rendicontazione dei progetti e dei contratti, per le spese di missione o per le procedure di valutazione della ricerca.

Il problema sollevato da Barbero è molto reale e sono i dati stessi dell’ANVUR nel Report 2023 a dimostrarlo.

Nelle università italiane è quasi assente il middle management amministrativo ed inoltre, come evidenzia la tabella qui sotto, i ruoli amministrativi e di staff nelle università italiane stanno diminuendo da dieci anni.

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Fig. 4 La diminuzione del personale amministrativo delle università

I dati ANVUR evidenziano una diminuzione progressiva e costante del personale tecnico e amministrativo nelle università italiane dal 2012 al 2022. Particolarmente negativa è poi la scarsità di personale negli “uffici ricerca”, quelli cioè che concorrono con i docenti alla parte amministrativa della progettazione dei bandi competitivi europei o internazionali (Erasmus e Horizon, tra tutti).

In particolare, con una piccola eccezione per il 2022, i ruoli dirigenziali o di elevata professionalità (Dirigenti e EP nel grafico) rimangono costanti e sono pochissimi – 2600 su 48.000 unità di personale – mentre decrescono i ruoli amministrativi più direttamente esecutivi e propriamente amministrativi (livelli D, C, e B del contratto del Personale Tecnico ed Amministrativo).

Anche il PTA poi è alle prese con normative e strumenti digitali farraginosi, obsoleti, e complessi che rendono anche il loro lavoro difficile e sicuramente più stressante di quello dei docenti. Non è perciò difficile correlare la diminuzione del Personale Tecnico Amministrativo con l’aumento del carico di lavoro burocratico che viene inevitabilmente delegato o “assorbito” dai docenti. Se uniamo quanto detto più sopra con la “cattiva” digitalizzazione delle procedure amministrative che affligge buona parte della pubblica amministrazione italiana comprendiamo meglio le ragioni di chi come Barbero segnala la “funzionarizzazione” del ruolo docente.

I nuovi tagli di budget all’orizzonte

Nella recente finanziaria è previsto un taglio lineare del 5% a carico di tutti i Ministeri, e quindi anche del Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM) e del Ministero e dell’Università (MUR), e questo taglio ragionevolmente andrà ad incidere su un sistema già sottofinanziato e povero di personale rispetto alle altre nazioni europee. Siamo davvero sicuri che questi tagli non rendono ancora più “complessa” la vita dei docenti e degli amministrativi dell’Università Italiana. Forse il governo dovrebbe chiedersi non quanto tagliare, ma quale sia il costo di non investire nell’educazione e nella formazione in un paese, dove sempre secondo i dati ANVUR e Open Polis, la percentuale di ragazzi tra i 18 e i 24 anni che non studiano, non lavorano e non cercano lavoro (NEET), ha raggiunto il 27,1% contro 16% della media OCSE e 14,2% quella dell’UE.



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