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Stellantis si spegne, i lavoratori scioperano per salvare l’industria dell’auto in Italia #finsubito prestito immediato

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La Panda si produce in Serbia, la Lancia Y in Spagna, la nuova Alfa in Polonia. In Italia restano solo le auto di lusso e nell’ultimo decennio dalle fabbriche ex Fiat, poi Fca e ora Stellantis sono stati cacciati più di undicimila operai. Con un paradosso: che gli incentivi decisi dal governo Meloni (950 milioni di euro) sono serviti in buona parte a comprare auto prodotte altrove e non nel nostro Paese. Qui da noi, infatti, Stellantis sforna circa 300 mila auto all’anno mentre la sua capacità produttiva è di un milione e mezzo di veicoli. Sapete che vuol dire? Che le fabbriche sono al collasso e migliaia e migliaia di posti di lavoro sono a rischio.

Questo quadro, descritto sommariamente, spiega qual è il senso della crisi profonda che colpisce il mercato dell’auto e che ha ripercussioni sui livelli occupazionali e sulle condizioni di lavoro. Il processo di deindustrializzazione, che è passato come un uragano sull’Italia negli ultimi anni, ha lasciato solo macerie. Lo sciopero dei lavoratori Stellantis di ieri ha queste motivazioni. Dal corteo di Roma, che per la prima volta dopo trent’anni ha visto di nuovo insieme i sindacati metalmeccanici di Cgil, Cisl e Uil, è partito un grido d’allarme che si spera venga raccolto. Il fatto che – e anche questa è una novità – in piazza ci fossero le opposizioni e i partiti di centrosinistra (da Schlein a Conte a Fratoianni) è la dimostrazione che qualche spiraglio si può aprire rispetto al recente passato, quando Marchionne veniva considerato un guru anche in certi settori di sinistra e si rincorrevano le parole d’ordine neoliberiste che hanno poi trovato posto nel renziano Jobs Act.

La crisi dell’auto investe tutta l’Europa, è vero. Persino la solida Volkswagen annaspa. Si rischia il collasso in uno dei settori trainanti del sistema industriale europeo. Il passaggio all’elettrico, senza particolari scelte di fondo (dagli incentivi ai prezzi di vendita, dai salari agli investimenti in ricerca, dai livelli occupazionali alle condizioni di lavoro) rischia di assestare un altro durissimo colpo a tutto il mondo dell’auto. Tutto questo mentre gli Stati Uniti sostengono il settore con robusti finanziamenti e chiedono conto anche a Stellantis di rispettare gli impegni e la Cina fa altrettanto puntando molto sull’elettrico.

L’Italia se la passa anche peggio degli altri paesi. Il comportamento degli ex padroni della Fiat in questo senso è emblematico: dopo anni e anni di incentivi e di aiuti di Stato sono riusciti a smobilitare scegliendo la via della delocalizzazione. Le fabbriche hanno cominciato a girare con tempi ridotti, si è fatto uso e abuso degli ammortizzatori sociali e dei licenziamenti, non si sono fatti gli investimenti promessi. L’amministratore delegato Carlos Tavares durante una recente audizione alla Camera ha rassicurato che l’azienda non ha intenzione di abbandonare l’Italia ma per evitarlo ha bisogno di soldi. Altri soldi, altri incentivi. In cambio di che cosa?

Il problema è che il combinato disposto delle lentezze europee, dell’immobilismo del governo Meloni e delle tentazioni di Stellantis di chiamarsi fuori rischia di massacrare il settore. Per questo hanno ragione i sindacati – lo hanno ripetuto anche ieri – a chiedere la convocazione a palazzo Chigi di Tavares. È necessario che Stellantis si assuma le proprie responsabilità sul fronte degli investimenti e dell’innovazione e che la premier si renda conto che la strategia industriale di un Paese non è un fatto secondario e che i problemi dell’auto non si risolvono con la propaganda e con le promesse. Occorre un piano straordinario, con investimenti pubblici e privati per risollevare il settore, dargli un futuro e un ancoraggio industriale solido. Altrimenti altre migliaia di lavoratori (ma anche di tecnici e ingegneri) saranno fatti fuori dalle aziende in un processo di destrutturazione che potrebbe cancellare definitivamente la produzione automobilistica dall’Italia.

Quella lanciata dai sindacati metalmeccanici è, quindi, una vertenza centrale per il nostro Paese (o per la nostra nazione, come ama dire Giorgia Meloni). Perché non vuole semplicemente difendere i posti di lavoro (che sono sacrosanti) ma pretende una politica industriale che accetti la sfida della transizione ecologica puntando sull’innovazione e la ricerca, su investimenti mirati e lavoro di qualità, su un nuovo ruolo dello Stato nell’economia e su un diverso progetto della politica. E’ una vertenza che guarda al futuro, del nostro Paese e di noi cittadini. Evitiamo (basta sfogliare i giornali) di voltarci dall’altra parte.

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