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Dopo quarant’anni di insegnamento, lo storico Alessandro Barbero va in pensione, lasciando il suo ruolo presso l’Università del Piemonte Orientale.
In un’intervista a La Stampa, Barbero riflette sulla sua carriera, offrendo spunti interessanti sul mondo accademico, il rapporto con gli studenti e l’evoluzione del ruolo del docente.
Barbero spiega la sua decisione di andare in pensione sottolineando la crescente burocratizzazione del mestiere, che lo ha allontanato dalle attività di ricerca e insegnamento a cui si è dedicato con passione per decenni. Critica la trasformazione di studiosi e ricercatori in “capi ufficio”, un fenomeno che, a suo avviso, ha reso il lavoro inutilmente più gravoso e stressante.
L’intervista si concentra poi sull’esperienza di Barbero all’Università del Piemonte Orientale, un ateneo di medie dimensioni che, secondo lo storico, offre il contesto ideale per la ricerca e l’insegnamento. Barbero elogia la qualità degli studenti, sottolineando come, nonostante le diverse caratteristiche di ogni generazione, la passione per la ricerca e l’intelligenza rimangano costanti. Osserva, tuttavia, una maggiore fragilità e incertezza nei giovani d’oggi, probabilmente dovuta alle prospettive future meno definite.
Barbero smentisce la narrazione che dipinge i laureati in discipline umanistiche come disoccupati, affermando che i suoi studenti trovano lavoro, principalmente nell’insegnamento: “La narrazione secondo cui un laureato in lettere sarà un disoccupato è falsa. Va da sé, però, che nella dimensione attuale, in cui l’università è fortemente aziendalizzata, un dipartimento umanistico offra meno occasioni per collaborare con l’economia del territorio”.
Riconosce, però, che in un sistema universitario sempre più aziendalizzato, i dipartimenti umanistici, con minori opportunità di finanziamento, sono svantaggiati. Difende con forza il ruolo delle discipline umanistiche, definendole “il lievito che fa crescere le nuove generazioni” e sottolineando la loro importanza per il benessere della società.
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