Siamo la quarta economia europea per Pil, ma l’ultima a credere nelle startup. Sarà la fuga dei cervelli, sarà anche che abbiamo il tasso più basso in Europa di giovani laureati occupati entro tre anni dal conseguimento del titolo (67,5% contro una media europea dell’83,5%), sarà anche che, fatto sta che, anche se il valore dell’ecosistema italiano delle startup è aumentato di 25 volte in 10 anni, raggiungendo (secondo Dealroom) un enterprise value di circa 67 miliardi di euro, stando ai rilievi di EY, gli investimenti in startup in Italia superano di poco l’1% del Pil, contro una media europea del 2,4%.
Anche nel primo semestre del 2024, l’Italia ha registrato una significativa contrazione negli investimenti nelle startup, con un calo del 24% rispetto allo stesso periodo del 2023: sono state realizzate 135 operazioni, rispetto alle 177 del primo semestre dell’anno scorso, per un ammontare complessivo degli investimenti, sceso a circa 356,61 milioni di euro, il 30,07% in meno rispetto ai 510 milioni di euro raccolti nello stesso periodo del 2023.
«È fondamentale ridurre le distanze tra gli attori chiave del processo di sviluppo dell’ecosistema innovativo: investitori, grandi aziende, centri di ricerca e istituzioni. L’Italia è il 13° ecosistema europeo per investimenti in venture capital e il 21° in termini di investimento pro capite: è ora più che mai necessario creare l’aspettativa per i giovani ricercatori e talenti di un ecosistema in grado di supportare l’attività di sperimentazione e lancio di nuovi prodotti sul mercato», sottolinea Manuel Urzì, Dealflow & New Business Manager di Startup Geeks, il più grande incubatore online italiano, che da gennaio 2019 a oggi ha supportato circa 2.100 imprenditori e incubato 1.050 progetti d’impresa e, nel 2023, ha chiuso un round di investimento da 949mila euro (tra gli investitori anche Seed Money).
«Investire in startup non è solo un modo per supportare la crescita occupazionale (secondo Cerved, nel 2023 le startup hanno contribuito alla creazione di 343 mila nuovi posti di lavoro, circa i due terzi del saldo occupazionale netto complessivo), ma un solido portafoglio di angel investment può, generare un ritorno annuo del 25%», rimarca Urzì. Peccato che la prima causa alla base del fallimento delle startup sia l’incapacità di raccogliere fondi: in Italia solo il 10% di round di investimento coinvolge gruppi di business angel. E solo il 14% delle startup che hanno raccolto un pre-seed riesce a raccogliere il Series A per scalare il business, contro una media europea del 25%. Questo è dovuto anche al basso numero di investitori attivi in Italia, circa il 67% in meno rispetto a Francia e Germania. «Mentre la Francia e la Germania stanno lanciando piani di investimento ambiziosi (rispettivamente “France 2030” da 54 miliardi di euro e il “Future Fund” federale da 10 miliardi di euro), l’Italia continua a discutere su fondi relativamente modesti e pone barriere teoriche allo sviluppo delle startup, come la richiesta di un capitale sociale minimo di 20.000 euro dal secondo anno per la permanenza nel registro delle startup», aggiunge Urzì.
Non solo: le grandi aziende italiane mostrano un limitato impegno verso le startup. «Solo il 16% delle blue chip ha veicoli per investire in startup, contro il 97% delle aziende tedesche. Per superare queste difficoltà, è necessario incentivare fiscalmente le grandi corporate a minimizzare il rischio associato agli investimenti in startup e promuovere modelli di innovazione esterna. La presenza di investitori corporate può influenzare positivamente la probabilità di successo di una startup, aumentando così le opportunità di crescita dell’intero ecosistema».
Un passo in avanti è l’approvazione della legge 21 del 5 marzo 2024 di conversione del disegno di legge n° 674 (il cosiddetto “Ddl Capitali”), che introduce la dematerializzazione delle quote di Pmi-Srl, facilitando la sottoscrizione delle quote e semplificando le operazioni di aumento di capitale, così come lo scambio e la negoziazione delle quote societarie. Ma non basta: c’è anche un tema culturale: «Non serve essere Jeff Bezos per investire in startup, bastano anche 500 euro per supportarle», conclude Urzì.
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