AGI – Urbano Cairo non vuole vendere il Torino. Lo ha detto nei giorni scorsi smentendo le voci di un interessamento di Red Bull e lo ha ripetuto anche ieri, in maniera un po’ brusca, ai giornalisti che lo hanno avvicinato al termine dell’ennesima partita persa dai granata. E’ legittimo che il patron si tenga stretto il club così come va condannata senza mezzi termini la violenza in cui sta degenerando ultimamente la contestazione nei suoi confronti.
Deve essere chiaro a tutti che i soldi sono di Cairo ed è giusto che ci faccia quello che ritiene opportuno. Però il presidente non deve dimenticare che i soldi li mettono pure i tifosi che vanno allo stadio, magari muovendosi da altre regioni, che comprano allo Store o che si abbonano alle varie piattaforme televisive anche solo per seguire la propria squadra del cuore. Perchè chi tifa granata è animato da un sentimento vero per questi colori, da un amore viscerale per questo club dalla storia così disgraziata ma bella e unica. Chi tifa granata si sente diverso dagli altri, porta dentro una ferita che non si rimarginerà mai più. Chi tifa granata considera sacra quella maglia, nonostante ormai sia deturpata dagli sponsor commerciali imposti dal calcio moderno.
Cairo, come tutti gli imprenditori che vivono di profitto, al massimo può essere considerato un simpatizzante. Non è certo un tifoso, nel senso più romantico del termine, altrimenti per il ruolo che riveste – ed è solo un esempio – da tempo si sarebbe attivato per dare una mano concreta al Museo del Grande Torino e della Leggenda Granata, portato avanti con cura e passione dai volontari dell’Associazione Memoria Storica Granata. Raccontano le guide del Museo che da quando c’è Cairo mai nessun dirigente o giocatore del Torino in attività si è presentato a Grugliasco. Bene ha fatto mister Vanoli a salire a Superga nei primi giorni della sua esperienza torinese ma si dubita che qualcuno della società gli abbia detto che a Grugliasco ci sarebbe ben altro ancora da scoprire, da conoscere e da ammirare.
A una squadra senza personalità come questa che ultimamente ha collezionato sei sconfitte nelle ultime sette partite, tra campionato e Coppa Italia, e che sabato 9 novembre andrà a giocarsi il derby all’Allianz Stadium forse gioverebbe più una visita al Museo per ritrovare un po’ di carica e orgoglio di appartenenza piuttosto che fare un allenamento a porte aperte al Filadelfia sotto gli occhi di tifosi imbufaliti.
A Torino tutti ricordano come Urbano Cairo sia diventato proprietario del club nella turbolenta estate del 2005. Lui ha raccontato di essere stato incoraggiato dalla mamma, la signora Maria, lei sì vera tifosa del Torino (quello Grande, però), ma gli è bastato poco per capire che gestire una squadra di calcio non è come fare l’editore di testate cartaceee, online e televisive o l’imprenditore nel campo della raccolta pubblicitaria. Nel football di oggi contano i soldi (tanti), la competenza (soprattutto nello scegliere collaboratori giusti e preparati), l’umiltà e la solita buona sorte. Cairo ha sicuramente messo tanti soldi, garantendo una stabilità finanziaria, oltre che un dignitoso valore patrimoniale, al club che prima di lui era finito in mano a soggetti poco raccomandabili. Tanti soldi, dicevamo, molti dei quali, però, spesi male, con acquisti scellerati di giocatori che si sono rivelati vere delusioni e cessioni che non hanno fruttato plusvalenze.
Diciannove anni alla guida di una società senza neppure annoverare un trofeo sono un numero più che sufficiente per poter dire che Cairo entrerà nella storia come il PRESINIENTE, così lo bollano con disprezzo i tifosi nei vari blog. Durante la sua gestione il Torino, che ha pure conosciuto l’umiliazione della serie B, è entrato in Europa soltanto due volte e sempre per guai finanziari altrui. Il bilancio dei derby, poi, è così sconfortante che non vale neppure la pena ricordarlo, sarebbe solo un esercizio di autofustigazione. In questi 19 anni, non arrivano a 10 le partite meritevoli di essere menzionate con orgoglio e soddisfazione. Nessun tifoso granata pretende ovviamente di vincere uno scudetto o di andare in Champions, ma di avere una squadra competitiva, quello sì. Ebbene, non è mai successo.
Cairo ha preso il Toro, lo ripetiamo, per assecondare un desiderio della mamma che è mancata nel 2012 e che da allora ha la fortuna di vedere gli “Angeli” giocare. Questa promessa d’amore, dunque, può anche venir meno. Cairo non ha una pistola puntata alla testa che lo obbliga a tenere il club tutto per sè. Non glielo sta ordinando un medico. E’ incomprensibile che un imprenditore di successo (negli altri campi) come lui accetti questa mediocrità sportiva senza rendersi conto che il tifoso granata vuole di più, perchè la storia gloriosa di questo club lo impone. Ammesso e non concesso che il Torino sia una specie di giocattolo o di distrazione domenicale (una volta si giocava solo di domenica), è legittimo chiedersi se Cairo si diverta ogni anno a non coltivare ambizioni, accontentandosi della solita, insignificante, posizione in classifica e facendosi superare (in fatturato e in risultati sportivi) da squadre che fino ad alcuni anni fa guardavano al Toro come a un modello da imitare.
Certo, nessuno si immagina che arrivi uno sceicco ma provi ufficialmente, il presidente, a dire che il Torino è in vendita e vediamo se davvero c’è qualcuno interessato a rilevarlo. Il che non vuol dire che lo debba dare via per forza: se un’offerta è ritenuta poco congrua o il potenziale acquirente è giudicato scarsamente credibile, è giusto che Cairo continui a essere il proprietario. Ma dopo 19 anni è chiaro a tutti, forse anche allo stesso patron, che serve una svolta. Economica e sportiva. Perchè chi ama il Toro, come chi scrive, davvero non ne può più.
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