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L’impero dei Tupperware: le ragioni del successo e del fallimento #finsubito prestito immediato


Usato spesso come parola di uso comune in diverse lingue (tra cui l’italiano ma anche l’inglese e il portoghese), il nome “Tupperware” è diventato, nella mente di consumatori di tutto il mondo, sinonimo di “contenitore per alimenti”. Dopo quasi 80 anni di storia, a settembre 2024, l’azienda nordamericana ha avviato una procedura di fallimento e c’è chi parla, a tal proposito, della fine di un’era[1].

Il destino del noto brand resta per il momento incerto e un’eventuale ripresa, se davvero attuabile, implicherebbe un cambiamento drastico e radicale di strategia da parte di Tupperware.

L’impero Tupperware, tra empowerment femminile, innovazione di prodotto e “home party”

Fondata nel 1946 nella città statunitense di Orlando (in Florida), da Earl Tupper, Tupperware è entrata nelle case delle famiglie nordamericane con “home party”, eventi organizzati da diverse venditrici che ospitavano nelle proprie case amiche, parenti e vicine per presentare loro questo innovativo prodotto per la conservazione di alimenti. 

Il modello di vendita in questione è stato adottato da Tupperware in un momento storico che ha certamente contribuito alla crescita dell’azienda: dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli uomini potevano finalmente ritornare al lavoro dopo il loro servizio militare e le donne, che erano finalmente entrate nel mercato di lavoro durante il conflitto, sono state incoraggiate a restare a casa con i figli, come ricorda un articolo condiviso il primo settembre sul sito del canale televisivo History[2].

Di conseguenza, gli “home party” di Tupperware sono diventati, per moltissime donne, non solo un’occasione sociale unica per incontrare delle amiche ma anche un modo per poter continuare a lavorare, senza uscire di casa. L’azienda incoraggiava ulteriormente le sue venditrici, regalando dei premi alquanto stravaganti a coloro che registravano le migliori performance: da anelli di diamanti a pellicce.

Gli incontri in questione sono diventati, negli anni ’50 e ’60, l’unico modo per acquistare prodotti Tupperware: l’azienda è riuscita, in questo modo, a perfezionare il modello di vendita diretta dei suoi prodotti, investendo sulla formazione di unesercito” di donne, appassionate del prodotto, e fortemente incoraggiate a promuoverlo tramite passaparola.

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Ma il successo di Tupperware si basava, chiaramente, anche sul prodotto altamente innovativo che proponeva all’epoca: grazie ai suoi recipienti con chiusura ermetica flessibile in polietilene l’azienda proponeva un nuovo metodo sicuro per conservare gli alimenti più a lungo, tra l’altro in un periodo in cui i frigoriferi erano ancora un elettrodomestico troppo costoso per alcune famiglie.

Del resto, il livello di qualità e di resistenza dei prodotti è forse la caratteristica che, ancora oggi, viene più associata a questa marca e ai relativi contenitori. Essi rappresentano per molti consumatori un ricordo nostalgico di casa e della propria infanzia, proprio perché, per via della loro durabilità, sono stati per decenni degli oggetti sempre presenti nei frigoriferi di moltissime famiglie, in tutto il mondo.

Infine, la nascita dell’impero Tupperware è anche direttamente collegata all’impegno dell’azienda nel favorire un senso di comunità; tale comunità è intesa come formata non solo da clienti ma anche da un’ampia rete di venditori fedeli (da considerare quali veri e propri ambassador): la strategia di vendita diretta alla quale l’azienda si è affidata –probabilmente, per troppo tempo – ha contribuito notevolmente a favorire questo legame tra il brand e i vari stakeholder .

I motivi del fallimento di Tupperware (e cosa possono imparare le aziende da questa vicenda)

La passione di tanti clienti e venditori per i prodotti Tupperware non sembra essere stata però sufficiente per salvare l’azienda dalla bancarotta. Infatti, il 17 settembre Tupperware ha diffuso un comunicato stampa in cui annunciava l’avvio di una tipologia di procedura di fallimento, prevista dall’ordinamento statunitense, finalizzata alla riorganizzazione dell’azienda, i cui problemi economici si protraggono ormai da diversi anni.

Basti pensare che nel terzo trimestre del 2021, l’impresa ha registrato un calo nelle vendite per sei trimestri consecutivi e, attualmente, il relativo debito ha raggiunto gli 818milioni di dollari, secondo quanto riportato in un articolo dell’agenzia Reuters[3].

Inevitabilmente, nelle ultime settimane, la vicenda è stata oggetto di conversazione sul web, con molti consumatori che ironizzavano sulla ragione del fallimento di Tupperware[4]: sono spopolati allora sui social i meme che presentavano i prodotti in questione come talmente resistenti da non richiedere sostituzione.

Ma i motivi della caduta di questo impero nordamericano sono ben più complessi e svariati.

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Fonte: Profilo Twitter di Rishi Bagree.

Un processo di digitalizzazione lento e inefficace e la difficoltà di adeguarsi a nuove abitudini di consumo

Uno dei principali punti critici da tenere in considerazione è stata la scelta dell’azienda di continuare a dare preferenza al modello di vendita diretta, investendo probabilmente molto meno del dovuto (e con un tremendo ritardo) in altri canali di distribuzione e di promozione: davanti alla crescita esponenziale dell’ ecommerce e delle reti sociali, l’azienda non è riuscita a stare al passo con le nuove abitudini di acquisto e di consumo, guidate dalla ricerca di customer journey sempre più accessibili e veloci.

Infatti, in totale contrasto con i noti “home party” di Tupperware, lo shopping online, e in particolare la nascita di marketplace come Amazon, ha permesso ai consumatori di confrontare in maniera veloce le varie alternative presenti sul mercato, facilitando l’identificazione di prodotti qualitativamente soddisfacenti e più convenienti di quello offerti da quest’azienda, che si è mantenuta negli anni su una fascia di prezzo alta.

Tra le ragioni del fallimento è impossibile quindi non menzionare una presenza online alquanto debole, soprattutto se si considera, per esempio, che il negozio online di Tupperware su Amazon, arrivato solo a giugno 2022, decisamente in ritardo rispetto a molte altre aziende del settore.

L’esitazione di Tupperware di fronte all’urgenza di adeguarsi ai cambiamenti ha dato così spazio a diversi competitor per acquisire quota di mercato.

Difficoltà nel proporre delle alternative più sostenibili

C’è poi la questione ambientale relativa alla preferenza delle nuove generazioni per alternative più ecologiche rispetto alla plastica.

Se da un lato è vero che negli ultimi anni Tupperware si è impegnata per ridurre la propria impronta ambientale tramite la ricerca di nuovi materiali[5], l’azienda ha sempre privilegiando l’uso della plastica. Nel frattempo, altri competitori sono riusciti a posizionarsi nel mercato come dei brand più sostenibili, proponendo contenitori di vetro, di bamboo o di silicone.

Occorre notare, a questo punto, che la questione presa in analisi risulta alquanto controversa: infatti, se molti consumatori cercano direttamente dei contenitori realizzati con materiali alternativi, altri invece continuano ad acquistare dei prodotti fatti di plastica, ma più economici e anche qualitativamente inferiori a quelli di Tupperware. Paradossalmente, dunque, la scomparsa della storica azienda potrebbe contribuire ad aumentare l’uso della plastica necessaria per la produzione di nuovi contenitori più economici ma meno resistenti.

Il dilemma viene esacerbato dalla difficoltà nel calcolare quale siano difatti i materiali piú eco-friendly, dato che, per esempio, l’energia richiesta per produrre e trasportare dei recipienti di vetro è notevolmente maggiore rispetto a quella necessaria per i contenitori di plastica[6].

Si conclude dunque che, anche dal punto di vista ecologico, quella affrontata da Tupperware è una sfida non indifferente che non sembra avere, almeno per il momento, una risoluzione semplice.

I “party” Tupperware sono davvero finiti o c’è ancora possibilità di ripresa per l’azienda?

L’istanza avviata da Tupperware, relativa alla norma fallimentare prevista nel Chapter 11 dell’United States Code stabilisce, come accennato, la possibilità per il creditore di continuare a operare mentre procede alla riorganizzazione dell’impresa.

Grazie a questa legge, la multinazionale potrà infatti, almeno per ora, continuare le sue attività mentre porta avanti un processo di ristrutturazione che prevede anche un piano di risanamento dei debiti soggetto al controllo e all’approvazione del tribunale.

Nel frattempo, inoltre, Tupperware dovrà trovare qualcuno disposto ad acquistare l’azienda, poiché questo sarebbe l’unico modo per poter proteggere il famoso brand e portare avanti i cambiamenti necessari.

Le sfide però non si fermano qui: uno dei problemi attuali di Tupperware riguarda la volontà dei finanziatori di trasformare la procedura avviata dall’azienda sotto la tutela del Chapter 11, in una procedura diversa, prevista invece dal Chapter 7 dell’United States Code, che stabilisce la liquidazione totale dei beni per saldare i debiti con i creditori, in maniera più veloce.

Per quanto riguarda la possibilità di ripresa da parte dell’azienda, una visione più ottimista potrebbe passare dall’analisi di casi come quello di General Motors, che in passato ha avviato la stessa procedura di fallimento proposta da Tupperware, riuscendo poi a rimettersi in sesto.

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Un altro esempio curioso da citare riguarda il caso studio di LEGO, un’altra azienda storica il cui core business si basa sulla produzione di mattoncini fatti di plastica, proprio come i prodotti Tupperware: l’azienda ha raggiunto nel 2003 un debito di circa 800milioni di dollari[7] ma dopo una radicale trasformazione è riuscita a reinventarsi, continuando a vendere il suo famosissimo prodotto, adeguandosi ai cambiamenti del mercato, puntando sull’ innovazione senza però snaturare i molto amati mattoncini.

Occorre notare che, anche se il termine “fallimento” può suonare alquanto definitivo, per il momento Tupperware parla, nel documento sopracitato, di una decisione strategica volta a consentire la transizione dell’azienda in una nuova fase.

A tal proposito, Laurie Ann Goldman, presidente e amministratrice delegata di Tupperware, ha descritto l’istanza come un «processo necessario per poter supportare la trasformazione di Tupperware in un’azienda digitale e guidata dalla tecnologia, meglio posizionata per servire i propri stakeholder».

Di fronte alle varie problematiche sopra elencate, risulta difficile dire quale sarà il destino dell’iconico brand e se riuscirà a sopravvivere: l’unica certezza sembra essere il bisogno urgente di una trasformazione radicale dell’azienda, ossia, una trasformazione che sia in grado di garantire il riposizionamento del brand come più eco-sostenibile, innovativo e digitale.





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