Giulio Formenti, 36 anni, nel 2017 era in prima linea in una battaglia storica: valorizzare il dottorato in Italia, a partire dal compenso, che all’epoca ammontava a mille euro. Oggi lavora come ricercatore a New York.
Perché?
“Nel 2019 ho concluso il dottorato in Statale. Anche mia moglie è ricercatrice e non aveva alcuna intenzione di restare in Italia. Voleva tornare negli Stati Uniti. Ci siamo sposati lì, durante il Covid. Mi sono guardato attorno anch’io. Sono qui da 5 anni e ora, dopo il post-doc, ho una posizione che è l’equivalente del ricercatore a tempo determinato, sono Research Assistant Professor. Non ho il “posto fisso“, ma sono condirettore di un laboratorio alla Rockefeller University, un’istituzione biomedica molto prestigiosa. Mi occupo di genomica e analisi dei dati”.
Rispetto al sistema italiano, quali sono le differenze più evidenti?
“Primo: non bisogna fare concorsi pubblici, ma chi ti assume, sulla base delle competenze, si prende una bella responsabilità. Ne risponde se non sei abbastanza valido. In Italia ci sono procedure più bizantine e i concorsi non sono sempre trasparenti. Il sistema americano è fondato sulla responsabilità individuale”.
Stipendi?
“Il tema dei salari è correlato e la differenza è enorme, non solo nella ricerca. Sono il coordinatore del chapter newyorkese di Airi, l’associazione di ricercatori italiani all’estero. Abbiamo più di 500 iscritti a New York abbiamo proposto un sondaggio in tutti gli Stati Uniti al quale hanno risposto in 750. Tra le domande c’era sempre la stessa: a che condizione tornerebbe in Italia? La maggioranza si aspetta uno stipendio superiore ai 100mila euro, proporzionato alle proprie competenze. Certo, tutto si parametrizza ai prezzi della vita, degli affitti: New York non è il posto più facile per mettere su famiglia, ma non mi sembra che a Milano siamo messi benissimo su questi temi”.
Più o meno a quanto ammonta lo stipendio di chi inizia la fase di post-dottorato?
“Intorno ai 65-70mila dollari all’anno. In Italia si arriva a 2.300, ma è molto raro, la media è sui 1.600 euro al mese. Poi il sistema però è più individuale, non c’è un tabellario ministeriale: puoi restare inchiodato al palo o guadagnare di più. A volte è più meritocratico, altre meno equo: puoi svolgere lo stesso lavoro del collega ma prendere di più o di meno. Tutto è privato. E i privati che fanno donazioni all’università hanno un sistema premiale fiscale”.
Ci sono altri benefici per i ricercatori?
“La casa si paga ma a metà del prezzo di mercato, per gli asili hai uno sconto del 30-50%”.
Le faccio la fatidica domanda anch’io: lei tornerebbe in Italia?
“Sto tenendo le relazioni con l’Italia, anche perché credo che esperienze internazionali possano arricchire l’università. Penso che un sistema che potrebbe incentivare lo scambio e infine il rientro di capitale umano e competenze sia quello della doppia affiliazione. È difficile per tutti tornare, sapendo che devi tagliarti lo stipendio di due terzi senza sapere se ne valga la pena. Ci sono incentivi fiscali per il rientro, ma presentano pecche. Meglio attrarre con borse di studio che con defiscalizzazioni: meglio essere pagati di più e pagare più tasse. E c’è preoccupazione per il dopo Pnrr: benissimo l’investimento, ci voleva. Ma ora bisogna fare sì che duri. Sono stati reclutati tanti ricercatori per un periodo limitato in un sistema accademico e industriale che non è particolarmente ricettivo: che ne sarà di loro? Se non arriveranno altre risorse e non si investirà davvero nella ricerca sarà come pioggia sull’asfalto”.
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