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Le cinque prefette e la rettrice di Messina. Le donne che svettano fuori dalla politica #finsubito prestito immediato – richiedi informazioni –


Prefette, rettrici, presidenti di associazioni di categoria, questore. Alla politica che alza un muro di gomma contro le donne, sotto rappresentate nelle giunte comunali, estromesse dai ruoli apicali alla Regione, all’Ars e nelle commissioni parlamentari, risponde la società vera. Dove le donne siciliane sempre più spesso si fanno spazio alla guida di enti e istituzioni. La foto dell’ultimo vertice di maggioranza tenuto a palazzo d’Orleans non lascia spazio all’interpretazione: sedici presenti, una sola donna. È Marianna Caronia, capogruppo della Lega all’Ars. Ma i leader dei partiti sono tutti uomini. Un’immagine che racconta la marginalità delle donne impegnate in politica nell’Isola.

E che non corrisponde a quello che avviene in altri luoghi rappresentativi del potere in Sicilia. È così per le prefetture: cinque delle nove al di qua dello Stretto sono rette da donne. A Catania da Maria Carmela Librizzi, a Trapani Daniela Lupo, ad Enna Maria da Carolina Ippolito, a Caltanissetta da Chiara Armenia, a Messina da Cosima Di Stani. A Palermo a capo della Procura generale della Corte d’Appello siede Lia Sava, a Siracusa la Procura è retta da Sabrina Gambino. E alla Questura di Caltanissetta il vertice è affidato a Pinuccia Albertina Agnello, mentre a Messina a capo dell’Ateneo c’è la rettrice Giovanna Spatari.

Guardando alla sanità, Barbara Cittadini ricopre l’incarico di presidente nazionale dell’Aiop, l’associazione di categoria della sanità privata, mentre a Palermo sulla poltrona più alta dell’Asp siede Daniela Faraoni. Anche Confcommercio nel capoluogo è guidata dall’imprenditrice Patrizia Di Dio, mentre all’ombra dell’Etna al vertice di Confindustria siede Maria Cristina Busi. L’unico sindacato guidato da una donna è la Uil, con Luisella Lionti. Fino all’Irfis, la banca della Regione Siciliana al cui vertice c’è Iolanda Riolo. C’è chi si considera una privilegiata e riconosce il valore del sostegno ricevuto dalla famiglia d’origine, chi invece racconta gli enormi sacrifici dietro l’impegno professionale e i risultati raggiunti, chi si sofferma su una parità ancora distante da raggiungere. Tutte con storie e percorsi diversi, ma con un concetto comune che ricorre nelle loro parole: rinuncia.

Nell’Isola fanalino di coda nei servizi che delega ancora il carico della cura familiare a un solo genere, le donne che oggi ricoprono incarichi di responsabilità e gestiscono una fetta significativa di potere sono concordi nel guardare a tutte le rinunce fatte per arrivare nei rispettivi posti. È così per la procuratrice di Palermo Lia Sava, la prima donna a ricoprire l’incarico nell’Isola. Prima alla Procura di Caltanissetta, quando i figli erano ancora piccoli, poi a Palermo.

«La fatica è quella che la gente non vede – osserva – si guarda al ruolo, al risultato conseguito, ma io ricordo bene i giorni in cui finivo un’udienza al processo su Capaci o a quello su via D’Amelio e correvo in macchina da Caltanissetta a Palermo, dai miei figli con la febbre. Ho investito sui di loro in una terra senza servizi. Tra scuole private, governanti, babysitter, autisti dello scuolabus, il mio investimento non erano di certo le borse griffate, la priorità sono sempre stati loro. E il mio lavoro». Rinunce per sopperire a un welfare assente che ancora oggi non mette le donne siciliane nelle condizioni di coniugare carico familiare e impegno professionale. «Basti guardare – osserva Patrizia Di Dio – la media di figli tra le donne lavoratrici. Due sono un lusso, tre troppo spesso un’utopia. Ho avuto una figlia, ma fortemente aiutata da altra donna, mia suocera, perché mia madre a sua volta lavorava e non avrebbe potuto. Di infrastrutture e welfare è carente tutta Italia, ma in Sicilia c’è proprio un vuoto. Anche dietro la tanto lodata auto imprenditorialità femminile, c’è la necessità di inventarsi un lavoro». È come se «dovessimo sempre dimostrare di essere non all’altezza, ma al di sopra delle aspettative» è la considerazione di Barbara Cittadini. «So di essere stata una privilegiata – prosegue – nella mia famiglia era ovvio che noi donne avessimo il diritto ad affermarci professionalmente». Famiglie, reti di sostegno, rinunce, ricorso al welfare privato. Nell’Isola in cui anche chi ce l’ha fatta non ha potuto contare su servizi e istituzioni a sostegno dell’affermazione professionale.



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