Foto Siciliani
Alle donne si fa fatica a credere, la loro parola non conta nulla. «I pregiudizi — ha detto la magistrata Paola Di Nicola Travaglini, consigliera presso la Corte di Cassazione, intervenendo lo scorso 25 ottobre, a Trieste, alla Tavola Rotonda “La violenza contro le donne e le risposte dell’ordinamento. Un confronto tra Autorità Giudiziaria e Centro Antiviolenza” — sono talmente radicati che non li vediamo.» Se poi oltre che donne sono madri e straniere, e con straniere s’intende non occidentali, non ne parliamo neanche.
È la storia di Ana (nome di fantasia), peruviana alle soglie dei quarant’anni, che dieci mesi fa si è vista portare via i figli — una bimba di due anni e un bimbo di tre — dal compagno da cui aveva subito violenza. Lui è un coetaneo benestante, appartenente a una famiglia in vista, naturalmente italiano. Lei di figli ne ha altri due, di otto e vent’anni, avuti da legami precedenti, quanto basta per appiccicarle addosso l’etichetta di “sudamericana furba”, nonostante abbia sempre lavorato e rinunciato al mantenimento da parte del padre del secondo figlio.
Ana non si dà pace, non capisce come la violenza che ha subito e ha avuto il coraggio di denunciare non sia stata minimamente considerata nel decreto con cui il Tribunale ha stabilito di affidare i figli al padre, lasciando a lei la possibilità di vederli solo dieci giorni al mese: se non rischiasse di apparire irrispettoso, si potrebbe quasi pensare che si sia voluto punire la madre per aver osato mettersi contro il padre. E non un padre qualunque, ma uno di buona famiglia. Uno che può permettersi buoni avvocati e che risulta credibile per il cognome che porta e per il genere a cui appartiene, mentre lei è sola e ha tutto fuorché il profilo di una donna maltrattata: non ci sta a fare la vittima, vuole combattere per riavere i suoi figli ed è disposta a ogni sacrificio per dimostrare che è in grado di occuparsene, che ha una casa (prima di quella attuale ne ha cambiate tre) e un lavoro adeguati pur non potendo contare su un’ampia disponibilità economica e su una rete familiare. Ana la famiglia ce l’ha lontana, anche se per darle una mano in un certo periodo alcuni parenti sono venuti appositamente dal Perù, ma una rete l’ha trovata nel G.O.A.P. (Gruppo Operatrici Antiviolenza e Progetti), l’associazione che gestisce il Centro antiviolenza di Trieste e che lei definisce «un posto dove si trova rifugio».
Sono realtà — i centri antiviolenza — che, supplendo ad azioni che dovrebbe mettere in campo lo Stato, aiutano le donne a riconoscere la violenza che hanno subito e continuano a subire e ad affrancarsene, offrendo loro in caso di bisogno una casa in cui stare o un sostegno economico, ma soprattutto un accompagnamento senza giudizio e senza condizioni, un percorso per riacquistare autostima e capacità di autodeterminazione, per riprendere in mano la propria vita e guardarsi allo specchio con fierezza dopo che per anni qualcuno ti ha convinto che non vali nulla, che non sei capace di niente, che non hai alcun potere. Tanto per dare qualche numero, dal 1999 alla fine del 2023 il GOAP di Trieste ha accolto 5569 donne e ne ha ospitate 411 con 400 minori nelle case rifugio e 373 in un albergo convenzionato.
«È una ferita» dice Ana «che mi sta facendo a pezzi piccolissimi, ma il mio dolore di donna lo chiudo in una scatola; quello di madre si chiede: chi mi restituisce il tempo rubato ai miei figli? Chi me lo ripaga? È possibile che tutto ciò che è stato portato come prova delle vessazioni subite non conti nulla? Che tutta la materia penale sia stata archiviata come se non fosse successo nulla? Non è vero che davanti alla legge siamo tutti uguali: la mia parola contro la sua non vale niente.»
Purtroppo, la storia di Ana è la storia di tante altre donne e non solo straniere. Ed è storia contemporanea: ancora oggi le denunce presentate dalle donne godono di scarsa credibilità e vengono facilmente archiviate. Lo evidenzia un’indagine realizzata dal Centro antiviolenza Goap a partire dai percorsi giudiziari che escono da situazioni di violenza di genere: il campione, composto da 283 donne che si sono rivolte al Centro tra il 2019 e maggio 2024, è esiguo e richiede cautela, ma si caratterizza per trasversalità in relazione all’età, alla nazionalità, al livello culturale, e per il fatto che nella quasi totalità dei casi chi agisce violenza è il partner o l’ex partner.
Quello che emerge non è confortante: tra le donne che hanno querelato e/o per le quali si è aperto un procedimento d’ufficio (circa il 55% del campione), solo una minoranza (34%) ha ottenuto un provvedimento di tutela e raramente con la dovuta urgenza; solo nel 26% dei casi il maltrattante è stato condannato, nel 20% dei casi c’è stata un’archiviazione e nel 16% dei casi una remissione della querela da parte della donna. Per quanto invece riguarda la tutela delle bambine e dei bambini convolti, è molto frequente l’affidamento condiviso tra genitori (75,6% dei casi) anche in presenza di querele, indagini o addirittura condanne per violenza contro la partner, mentre sono rari (22% dei casi) i provvedimenti che fanno decadere la responsabilità genitoriale del padre sospettato di aver agito violenza, indagato per questo tipo di reato o condannato.
Il risultato non cambia se esaminiamo gli esiti dell’indagine della Commissione Femminicidio del Senato: tra i 2.089 procedimenti di separazioni con figli minori esaminati, 603 mostravano prove di violenza, ma solo nel 15% dei casi i giudici avevano approfondito le accuse presentate. A dimostrazione che i racconti delle donne non sono considerati attendibili e le loro denunce, frutto di grande fatica e altrettanto coraggio, continuano ad essere sottovalutate. Come le loro vite e quelle dei loro figli.
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