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Le microplastiche sono in moltissimi degli abiti che indossiamo ogni giorno e questo rappresenta un problema che continua ad essere trascurato da chi opera nell’industria della moda. Secondo una recente indagine della Changing Markets Foundation dal titolo Fashion’s Plastic Paralysis infatti l’industria della moda internazionale sta raddoppiando l’uso di fibre sintetiche mentre distrae l’attenzione dei consumatori per continuare a proteggere il suo modello di business fast fashion. 

Il rapporto ha valutato 50 grandi marchi della moda, con una capitalizzazione di mercato combinata di oltre 1.000 miliardi di dollari, sul loro uso di fibre sintetiche e sulle loro politiche e strategie per affrontare l’inquinamento da microplastiche.

Il problema delle fibre sintetiche

Le fibre tessili sono oggi la scelta dominante sia per la moda che per l’industria tessile più in generale. Rappresentano oltre i due terzi (69%) della produzione tessile, una percentuale che si prevede salirà al 73% entro il 2030.

Una precedente indagine della Changing Markets Foundation relativa al 2021 rivelava che su oltre 4.000 capi di abbigliamento di marchi di moda globali il 67% contiene materiali sintetici. Per i produttori le fibre sintetiche sono più economiche e versatili delle fibre naturali, come lana, cotone o lino, e permettono ai brand di produrre molti più capi di abbigliamento ad un costo basso, se non bassissimo, alimentando il fenomeno dal fast fashion e dell’ultra-fast fashion

Tuttavia, come lettori e lettrici di EconomiaCircolare.com sanno, laddove il costo è inspiegabilmente basso a pagare c’è sempre qualcuno: l’ambiente, i diritti di lavoratori e lavoratrici che hanno realizzato il capo e la salute di chi li indossa.

Sono diverse le motivazioni che spiegano perché le fibre sintetiche possono rappresentare un grande problema per l’ambiente e per la nostra salute: in primo luogo contribuiscono in modo significativo all’inquinamento da rifiuti e plastica, mantenendo l’industria della moda legata ai combustibili fossili. Il poliestere, ad esempio, che è la fibra sintetica più utilizzata nell’industria della moda, ha la maggiore impronta climatica, con 125 milioni di tonnellate di emissioni di CO2e solo nel 2022.

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L’industria dell’abbigliamento ha generato 8,3 milioni di tonnellate di inquinamento da plastica nel 2019, il 14% del totale di tutti i settori. Questo sta portando anche a problemi di salute potenzialmente significativi ma ancora non del tutto indagati.

Immagine: “Fashion’s Plastic Paralysis” di Changing Markets Foundation

Leggi anche: SPECIALE | Moda e greenwashing

Presente e futuro delle fibre sintetiche

In questo quadro, quanto emerge dall’indagine lascia ancor più con l’amaro in bocca.

Nell’aprile 2024, la Changing Markets Foundation e i suoi partner Clean Clothes Campaign, Fashion Revolution, No Plastic in My Sea e Plastic Soup Foundation hanno scritto a 50 marchi di abbigliamento e rivenditori di tutto il mondo. Il questionario richiedeva informazioni su diversi argomenti, tra cui l’uso di fibre sintetiche, l’impegno a eliminare gradualmente queste fibre, le politiche per affrontare il problema del rilascio di microfibre e la posizione dell’azienda su alcuni elementi della legislazione proposta nella strategia tessile dell’Unione Europea e nel Trattato globale sull’inquinamento da plastica

Più della metà delle aziende (54%, 27 marchi) non ha risposto al sondaggio, in tutto o in parte, rispetto al 44% del 2022 e al 17% del 2021.”Le aziende tengono nascosta la loro reale dipendenza dai prodotti sintetici”, asseriscono dal report.

Quasi tutte le aziende (45 su 50) sono rimaste nelle due categorie più basse, una caratterizzata da una trasparenza limitata e da una forte o crescente dipendenza dai materiali sintetici, e l’ultima, la zona rossa, definita da una trasparenza minima o nulla. Le 29 aziende nella zona rossa comprendono un mix di fast fashion, marchi sportivi e di lusso, grandi magazzini e aziende che vantano la loro sostenibilità, tra cui Patagonia, Adidas, Boohoo, Burberry, LVMH, Shein e Walmart.

Stando ai dati dell’indagine, Shein ha registrato la quota più alta di fibre sintetiche all’interno della produzione totale di indumenti, pari all’82%, inoltre l’azienda non ha rivelato le percentuali nel 2022. Boohoo è stato il secondo utilizzatore con il 69% (rispetto al 64% nel 2022) delle fibre totali utilizzate, seguito da Lululemon con il 67% (rispetto al 62% nel 2022), Aldi con il 60% e New Look con il 56% (rispetto al 60% nel 2021).

Inditex ha rivelato l’uso più elevato di materiali sintetici in termini di volume, con 212.886 tonnellate nel 2023, un aumento significativo rispetto alle 178.030 tonnellate dell’indagine del 2022. “Tuttavia Shein – fanno notare gli autori del report – non ha rivelato il suo volume totale; dato che nel 2022 Shein ha superato H&M e Inditex conquistando un quinto del mercato globale del fast fashion, è altamente probabile che sia anche il più alto utilizzatore di sintetici in termini di volume. Anche Nike non ha fornito il suo volume totale di materiali sintetici, ma ha rivelato un notevole volume di poliestere”.

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Leggi anche: Moda più sostenibile, dal Mimit 15 milioni di euro per l’innovazione green e digitale

Le fibre sintetiche aumentano

Oltre alla situazione attuale a preoccupare è anche l’aumento degli ultimi anni, documentato dal confronto delle due indagini a tre anni di distanza. Dalla pubblicazione del primo sondaggio nel 2021, circa la metà delle aziende (11 su 23) che hanno risposto ha aumentato l’uso di sostanze sintetiche. Cinque hanno mantenuto l’uso dei sintetici con fluttuazioni insignificanti e solo tre aziende lo hanno diminuito. Quattro aziende hanno lasciato in bianco questa sezione. 

Se si conta che le restanti 27 aziende non hanno risposto al sondaggio, “ciò dimostra – denunciano ancora dalla Changing Markets Foundation – una preoccupante mancanza di trasparenza. Dato che si prevede che le fibre sintetiche raggiungeranno il 73% della produzione tessile entro il 2030, è probabile che la maggior parte di questi marchi stia espandendo l’uso delle fibre sintetiche”.

Leggi anche: Microplastiche nei tessuti sintetici, quante ne indossiamo?

Le strategie per ingannare i consumatori

In un mercato in cui la sostenibilità sta diventando una marcia in più che invoglia all’acquisto – questione che aprirebbe riflessioni sulla natura stessa del consumo: qui potete leggere degli approfondimenti sul tema –  i grandi brand cercano modi fantasiosi per sottrarsi alle loro responsabilità.

L’indagine raggruppa questi comportamenti in diverse strategie, trovando un’analogia con quanto fatto dall’industria del tabacco e da quelle dei combustibili fossili.

La prima riguarda il ritardare l’azione puntando su una presunta incertezza scientifica. In risposta ad una domanda del questionario riguardante le microplastiche, 15 aziende su 17 (88%) hanno riconosciuto che le microplastiche da fibre sintetiche creano problemi ambientali. Tuttavia, circa un terzo (8 su 23; 34%) di esse ha citato la necessità di ulteriori ricerche.

In particolare sei aziende – Inditex, Varner, società madre di Dressmann, Primark, PVH, Tesco e Zalando – hanno citato la necessità di metodi standardizzati per misurare il rilascio di microfibre e di maggiori ricerche sugli impatti. In questo senso sappiamo che Aquafil, CNR-STIIMA Biella e UNI sono riusciti recentemente a sviluppare un metodo per la determinazione qualitativa e quantitativa delle microplastiche di tipo fibroso contenute in differenti matrici allo stato solido, liquido o aeriforme provenienti dal settore tessile: l’ISO 4484-2 sulle microplastiche.

Un altro modo per sfuggire dall’adozione di politiche concrete di contrasto alle microplastiche riguarda l’adesione a iniziative di sostenibilità create dall’industria, come TMC, Fashion For Good, ZDHC e Japan Clean Ocean Material Alliance. Per 16 aziende su 50 (32%), tali adesioni sono state l’unica strategia per affrontare il problema delle microfibre, anche se la semplice iscrizione non garantisce alcuna azione significativa contro l’inquinamento da microfibre. 

Un’altra strategia prevede di distrarre con false soluzioni e greenwashing. Molti marchi dell’industria della moda starebbero, secondo la ricerca, cercando di spostare la narrazione dal problema della plastica sostenendo che tutte le microfibre, indipendentemente dalla loro origine, sono ugualmente problematiche, contrariamente alle scoperte scientifiche che evidenziano specificamente i rischi dell’esposizione alle microplastiche.  

Infine, una pratiche intramontabile è quella di scaricare le responsabilità sul consumatore, offrendogli indicazioni sulla cura degli indumenti e raccomando l’installazione di filtri per le lavatrici per evitare che le microplastiche presenti nei vestiti finiscano nell’ambiente. “Questo approccio – concludono dalla fondazione – non solo passa il testimone ai consumatori, permettendo ai marchi di lavarsi le mani da qualsiasi responsabilità, ma si concentra anche sulla pulizia delle conseguenze piuttosto che sulla prevenzione del problema alla fonte”. 

Leggi anche: Microplastiche e nanoparticelle nel corpo umano: tutto quello che c’è da sapere

© Riproduzione riservata





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