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La riduzione delle emissioni nel settore agricolo sta rallentando #adessonews

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L’agricoltura produce, ogni anno, quasi un terzo (circa 17 Gt di CO2eq nel 2022) di tutte le emissioni di gas climalteranti attribuibili alle attività umane. Inoltre, tenendo conto dell’attuale traiettoria di crescita della popolazione umana e del crescente accesso a condizioni di vita più agiate (che corrispondono a una dieta più ricca e, soprattutto, più basata su prodotti di origine animale), si può prevedere che la domanda di cibo aumenterà quasi del 50% entro il 2050. Ciò comporterà una maggiore pressione sul sistema di produzione alimentare globale e sugli ecosistemi da cui esso dipende e, soprattutto, aumenterà ancora le emissioni causate da questo settore produttivo.

In una ricerca pubblicata da poco su PNAS e condotta da un gruppo di studiosi cinesi con il contributo scientifico della FAO (Food and Agriculture Organization), è stata analizzata l’evoluzione dell’intensità di emissioni di gas climalteranti da parte del settore agricolo dal 1961 a oggi.

L’analisi mostra alcune tendenze interessanti: innanzitutto, si nota una consistente riduzione dell’intensità delle emissioni (intesa come la quantità di emissioni per ogni kilogrammo di proteine, animali o vegetali, prodotto) del settore dal 1961 ad oggi su scala globale (circa due terzi in meno), pur con importanti differenze geografiche. È interessante evidenziare che questa riduzione delle emissioni si è accompagnata a un aumento della produttività degli allevamenti di bestiame, il che si spiega solo con il grande incremento in termini di efficienza delle tecniche agricole avvenuta soprattutto nella seconda metà del Novecento. Gli autori scrivono che livelli simili di riduzione dell’intensità delle emissioni sono stati riscontrati in relazione a diverse fasi della produzione agricola (produzione primaria, lavorazione secondaria e lavorazione dei prodotti finali) e in Paesi diversi, «dimostrando la pervasività di questo fenomeno».

Guardando i dati più nel dettaglio, tuttavia, emerge come la curva di riduzione dell’intensità delle emissioni di origine agricola abbia rallentato in decenni recenti, giungendo negli ultimi dieci anni a una sostanziale stagnazione.

Il rallentamento della riduzione dell’intensità delle emissioni del settore agricolo è stata più evidente in Nord America, Sud America e Oceania, dopo una forte riduzione dell’intensità delle emissioni raggiunta tra il 1961 e il 2006; l’intensità delle emissioni è invece leggermente aumentata, nell’ultimo decennio, nei Paesi di Africa, Asia ed Europa. Gli aumenti più consistenti in anni recenti si sono verificati in Paesi in via di sviluppo come alcuni Paesi africani, la Mongolia, il Perù e l’Indonesia. Questa tendenza si può spiegare con l’aumento del cambiamento d’uso del suolo dovuto, in questi Paesi, soprattutto alla conversione di foreste in aree coltivate destinate in larga misura alla produzione di mangimi per gli animali da allevamento.

Come spiegano gli autori della ricerca, il plateau nella riduzione dell’intensità delle emissioni osservato su larga scala tra il 2007 e il 2019 «indica che l’aumento della produzione di bestiame e i cambiamenti nell’uso del suolo per la produzione agricola hanno neutralizzato gli effetti positivi del miglioramento della produttività [del settore] sulla riduzione dell’intensità delle emissioni».

Nel complesso contesto geopolitico odierno – sottolineano i ricercatori – è probabile che la riduzione delle emissioni e la transizione dei principali sistemi produttivi verso pratiche più sostenibili non sia, per molti Stati, un obiettivo primario. La necessità di garantire alla propria popolazione la sicurezza alimentare potrebbe far propendere i decisori politici verso soluzioni ambientalmente dannose.

Tutto questo va letto, come dicevamo, anche alla luce dell’aumento della popolazione umana mondiale entro il 2100, e della necessità di sfamare tutte queste persone in modo adeguato: se le tendenze odierne persistono, il previsto aumento della domanda di cibo (tra il 30 e il 50% rispetto al livello di produzione odierno) porterà a un rapido aumento delle emissioni del settore agricolo, che potrebbero seriamente ostacolare l’impegno a limitare il riscaldamento a 1,5°C, come previsto dall’accordo di Parigi.

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Le opzioni di mitigazione in ambito alimentare sono diverse: dalla promozione dell’adozione di diete più sostenibili, caratterizzate principalmente da un consumo ridotto di prodotti di origine animale, all’efficientamento dei metodi di fertilizzazione delle coltivazioni e di nutrimento degli animali allevati. È però improbabile che gli Stati meno facoltosi si impegnino nell’implementazione di queste misure, poiché, nel caso di scarsità di risorse, le priorità sono altre. «Per supportare i Paesi in via di sviluppo o quelli che fronteggiano problemi di insicurezza alimentare, è essenziale facilitare il trasferimento di conoscenze e tecnologie miranti alla mitigazione [del cambiamento climatico], nonché fornire aiuti finanziari […]», sostengono gli studiosi.

«Questo approccio – concludono – non soltanto ridurrà le differenze nella distribuzione e nell’accesso alle risorse, ma rafforzerà la cooperazione globale per la realizzazione di un futuro sostenibile».





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